NO, NON È UN BLOG DI GIARDINAGGIO
MA POTRESTE TROVARE QUEL CHE NON STATE CERCANDO


giovedì 30 dicembre 2010

Pomander

Il pomander originario si potrebbe definire come un contenitore metallico grande al massimo come un’arancia, spesso traforato o diviso in settori, da portare legato a una catenella alla cintura, al collo, al polso (al dito!) e contenente sostanze profumate. La trasformazione in arancia trapunta di chiodi di garofano avviene per gradi.

Il termine è inglese, nato direttamente dal francese pomme d’ambre ovvero mela d’ambra. Questa è da intendersi come ambra grigia (ambre gris), che va distinta dalla resina fossile (ambre jaune) già conosciuta in antichità come elettro (Ηλεχτρον, Elektron). Il termine ambra deriva dall’arabo عنبر `anbar, a sua volta da عنابر `anābir (capodoglio) attraverso il latino medievale ambar, che indicava la sola ambra grigia … Le vie della linguistica sono spesso tortuose come quelle del commercio: l’ambra grigia (e il suo nome) viene fatta conoscere all’Occidente dai Crociati; l’ambra grigia è legata al mare, così come l’elettro proveniva dalle coste del Mar Baltico; entrambi i materiali sono leggeri (l’ambra gialla meno della grigia, che è più leggera dell’acqua), entrambi sprigionano un aroma gradevole quando vengono forati con un ago arroventato, su cui lasciano un residuo appiccicoso – e questo è ancora il primo metodo per distinguerli dalle contraffazioni. Se l’ambra gialla fusa profuma di resina, la grigia ricorda il sentore del mare, del sottobosco, del muschio (ossia la secrezione feromonica delle ghiandole dei maschi di Moschus moschiferus) eccetera eccetera: molto dipende dal naso di chi annusa, molto dal processo di formazione dell’ambergris.

Funghi di alberi sottomarini; sperma di balena rappreso; fegato di un certo pesce; spuma del mare; bitume che esce dal fondo del mare e giunto in superficie si condensa … Così enumera il medico e farmacista Giuseppe Donzelli (1596-1670) nel suo Teatro farmaceutico, dogmatico e spagirico del 1667. L’origine marina dell’ambergris era nota da tempo e Marco Polo così ne parla nel capitolo 186 (Dell’isola del Madegascar) de Il Milione: “Qui si à ambra assai, perciò che in quello mare àe assai balene e capodoglie; e perché pigliano assai di queste balene e di queste capodoglie si ànno ambre assai.” Ma il legame con i cetacei non era ben chiaro; Avicenna (980-1037; il suo Kitab al-Qanun fi al-Tibb, tradotto in latino come Liber canonis medicinae nel XII secolo, sviluppa su esperienze personali gli scritti di Galeno e rimane per secoli uno dei principali manuali di medicina) sosteneva che le balene ingurgitavano e poi vomitavano l’ambra, che quindi si poteva sia trovare nello stomaco degli animali sia raccogliere spiaggiata.

Oggi, sebbene l’etologia del capodoglio sia in gran parte ancora sconosciuta, sappiamo qualcosa di più: “L’ambergris è una rara concrezione patologica cerosa che si rinviene nello stomaco e negli intestini del capodoglio (Physeter catodon). La sua origine è ancora incerta, ma le condizioni possono essere dovute all’irritazione causata da certi cibi indigeribili, specialmente quando la balena si nutre di seppie (Sepia officinalis). I becchi cornei o mandibole delle seppie, quasi invariabilmente rinvenuti nell’ambergris, non possono essere digeriti e causano irritazione. La concrezione innaturale è solitamente espulsa nell’ordinario processo di escrezione, ma frequentemente il capodoglio si ammala e muore prima che la condizione evidentemente morbosa si risolva. L’ambergris è così ritrovata sulle coste di tutti i mari frequentati dai capodogli e nelle carcasse dei capodogli morti. Quando è fresca, l’ambergris è nera e mista a sangue e materia fecale, e emana un odore sgradevole. Quando la massa è esposta all’aria e al sole, l’ambergris diviene grigio chiara (gris) e dura, e assume un odore dolce, muschiato. L’ambergris consiste principalmente (80%) di ambreina, grassi e acido benzoico. Il suo odore potrebbe derivare dalle seppie di cui la balena si nutre.” Karl H. Dannenfeldt, Ambergris: the search for its origin, 1982. (Traduzione a braccio). Dunque solo dopo aver flottato per lungo tempo (alcuni anni) sulla superficie del mare, soggetta alla fotodegradazione e all’ossidazione, l’ambergris acquista le caratteristiche che la rendono tuttora molto pregiata. L’ambreina, il principale responsabile dell’aroma dell’ambergris, è un alcol triterpenico (i terpeni sono molecole assai interessanti – e odorose; tuttavia, viste le mie scarsissime nozioni di biochimica, mi fermo qui).

Le masse d’ambra contenute nel corpo dei capodogli possono raggiungere il peso di alcune centinaia di chilogrammi; tuttavia l’ambra “matura” che si rinviene sulle spiagge si presenta in noduli pesanti tra i cento grammi e i dieci chilogrammi. La scarsità e l’origine incerta facevano dell’ambergris un materiale molto costoso, il cui prezzo saliva ulteriormente sui mercati europei, molto lontani dalle coste dell’Oceano Indiano dove era raccolta.

Nel 1174, anno della sua incoronazione, Re Baldovino IV di Gerusalemme invia in dono all’Imperatore Federico Barbarossa una raffinatezza orientale: contenitori sferici di metallo traforato composti di due valve racchiudenti muschio (ancora nel senso di Moschus; l’essenza era impastata con cera o argilla o altro materiale analogo) – sono i pommes de senteurs, da cui deriveranno i pommes d’ambre e poi i pomanders.

Il muschio sarà sostituito dall’ambra grigia, che grazie alla sua consistenza è posta direttamente nel contenitore, senza che sia necessario miscelarla a sostanze solide. Tuttavia il suo prezzo è altissimo e solo pochi sono in grado di acquistarne in quantità; l’ambergris allora sarà usata più spesso in miscele anche molto complesse; si scopre intanto la sua capacità di prolungare la durata delle altre essenze, cosa che contribuisce ad aumentarne il pregio (ora sappiamo che ciò avviene perché le molecole profumate si legano a quelle dell’ambergris, che sono grandi, pesanti e meno volatili). Il termine pomander indica perciò tanto il contenitore quanto il contenuto; il primo può divenire un oggetto molto prezioso, anche in oro decorato con perle e pietre dure; il secondo si differenzia in base alle esigenze e alle possibilità.

Odorare profumi non era semplicemente piacevole: era ritenuto salutare. La medicina si basava in gran parte sulle idee sviluppate secoli prima da Ippocrate e Galeno, idee che comprendevano la teoria umorale, secondo la quale la malattia era causata da una rottura dell’equilibrio tra i quattro umori che governano il corpo (bile, sangue, atrabile e flegma); si trattava soprattutto di una medicina preventiva, dalle molte norme igieniche, dove curare significava appunto ristabilire l’equilibrio perduto, intervenendo con salassi, astinenze da cibo o sesso o bagni caldi (!), assunzione di preparati soprattutto a base d’erbe (pastiglie, decotti, infusi o altro, comprese le fumigazioni) eccetera eccetera. Su queste basi la medicina proseguì almeno fino al XIX secolo – e a dire il vero anche oggi la si incontra, fuori dai circuiti ufficiali, annunciata dal suffisso –terapia e cosparsa di un po’ della sapienza del lontano Oriente (insomma, l’esotico  aiuta! il medico se non il malato, come dimostra Wagner: non proviene forse dall’Arabia il balsamo che Kundri porta ad Amfortas? di certo superiore a ogni altro farmaco sulla Terra!).

Accade così che la diffusione dei pomander in epoca tardo-medievale sia testimoniata tra l’altro dalle numerose ricette (almeno tredici sono arrivate a noi) concepite per ridurre le possibilità di contagio durante la grande peste del 1347-53. La brutalità del morbo lascia attoniti i medici, che faticano a trovare una spiegazione coerente con l’eterogeneo sistema teorico del tempo. Tra le poche certezze, la natura caldo-umida della peste, che dunque andrà contrasta con preparati caldi e secchi in inverno e freddi e secchi in estate (e l’ambergris, ricorda ancora il Donzelli, “è calda e secca nel secondo grado”), come suggerisce il Compendium de epidemia redatto dai medici della Facoltà di Parigi dietro richiesta di Filippo VI; il trattato circola a lungo in tutta Europa con notevole influenza sulle pratiche mediche. Le varie ricette per i pomander prevedono quasi tutte l’uso di ambergris, associata a aloe, acqua di rose, muschio e canfora. Mentre Gentile da Foligno, che pure nel suo Consilium de peste, terminato poco prima di morire per il morbo nel 1348, dà indicazioni per la preparazione dei pomander, suggerisce l’uso di semplici erbe alle persone più povere. Le piante spontanee o coltivate negli orti di per sé non erano ritenute meno efficaci: si pensava piuttosto che nella farmacopea come nella cucina fossero più adatte alla complessione più “grossolana” dei ceti inferiori, ai quali spezie e prodotti esotici sarebbero risultati invece più dannosi che salutari. La questione dunque non è solo economica e porta una differenziazione per gradi della farmaceutica tra strati alti e strati bassi della società.












sopra: Pomme de senteur a sei spicchi in oro smaltato, Paesi Bassi, 1610-1620. Rijksmuseum, Amsterdam ©

Così negli elenchi dei doni ricevuti dalla Regina Elisabetta I per il Nuovo Anno troviamo sia “a pomaunder gar' with golde and 12 sparks of rubies and perles pendaunt” da parte di Lady Heniaige,  sia “a cheyne of pomaindes, with buttons of silver betwene”, da Charles Smyth, Gentilman (insieme a zenzero candito, arance candite, marzapane, dolci di mele cotogne…); ma troviamo pure quella che dovrebbe essere una delle prime registrazioni di un pomander realizzato con chiodi di garofano: “stikt round about with cloaves”.

Di qualche decennio prima, ancora in Inghilterra, abbiamo altri cenni che raccontano della trasformazione del pomander da gioiello a frutto “trapuntato tutto intorno con chiodi di garofano”. Si tratta di poche righe comprese nella biografia del Cardinale Thomas Wolsey (1471-1530) (Thomas Wolsey, Late Cardinall, his Lyffe and Deathe) redatta da George Cavendish (1494-1562 c.a): “[…] holding in his hand a very fair orange, whereof the meat or substance within was taken out, and filled up again with the part of a sponge, wherein was vinegar, and other confections against the pestilent airs; to the which he most commonly smelt unto, passing among the press, or else when he was pestered with many suitors.La polpa dell’arancia è sostituita con una spugna imbevuta di aceto e sostanze profumate; la buccia fa da contenitore e contribuisce al complesso degli aromi. Un lusso senza sfarzo.

E finalmente nel masque (rappresentazione teatrale di carattere allegorico e altamente scenografica) scritto da Ben Jonson per le feste a corte del Natale 1616, “Christmas, His Show”, l’arancia è associata ai chiodi di garofano (cloves), attestando la diffusione del pomander come lo conosciamo oggi.

Gamboll:
And heer's New-yeares-gift h'as an Orenge, and Rosmarie, but
not a clove to sticke in't.

New-Yeares-Gift:
Why, let one go to the Spicery.

Christmas:
Fie, fie, fie; it's naught, it's naught boyes.

Venus:
Why, I have cloves, if it be cloves you want, I have cloves in
my purse, I never goe without one in my mouth.

Pomander

martedì 21 dicembre 2010

Solstizio d'inverno

C’era l’intenzione di raccontare qualcosa dei luoghi d’origine e della storia di Camellia sasanqua, ora che il mal tempo e il freddo ne hanno portato via gli ultimi fiori, e di approfittare dell’occasione per parlare anche della correlazione tra suolo e clima e delle pretese che alcuni giardinanti hanno di coltivare qualunque pianta di cui si innamorino sotto qualsiasi cielo si trovino. 

Ma oggi è il solstizio d’inverno – e pure notte di plenilunio: chissà se dobbiamo aspettarci strani effetti sulle persone… – e il giorno merita di essere celebrato. I falò che si accendevano per sostenere il sole nella notte più lunga dell’anno (e ancora oggi nella notte dell’Epifania) purtroppo non vengono molto bene on-line e allora vi offrirò qualcosa di assai diverso che ritengo però altrettanto beneaugurante.

Scegliete un’arancia sana, di forma regolare e del diametro di sette-otto centimetri, dalla buccia sottile: la varietà Tarocco è molto adatta. Prendete circa cinquanta grammi di chiodi di garofano, evitando quelli minuti, difficili da maneggiare, e inseriteli ad uno ad uno nella buccia dell’arancia, lasciando poco spazio tra l’uno e l’altro. Impiegherete circa un’ora. Potrete aiutarvi con un ago da materassi o uno spiedino di bambù per forare appena la buccia prima di inserirvi il chiodo di garofano. Un ditale eviterà che i polpastrelli più sensibili siano doloranti al termine del lavoro. Fate attenzione affinché la buccia non si rompa o sarete costretti a gettar via tutto. Il succo evapora attraverso i chiodi di garofano nel tempo di un paio di settimane, durante le quali terrete l’arancia il luogo ventilato; essiccandosi l’arancia si riduce di diametro e gli spazi tra i chiodi di garofano scompaiono. Otterrete così una versione moderna del pomme d’ambre o pomander (oggetto di origine tardo medievale di cui vorrei parlarvi più diffusamente la prossima volta): caldo, profumato, solare, scaccia i cattivi pensieri dall’inverno e le tarme dagli armadi.


Così preparato il pomander si conserva per anni, mentre se non ricoprirete l’intera superficie dell’arancia con i chiodi di garofano la durata si accorcerà a pochi giorni. Un metodo più complesso prevede di far asciugare il pomander, rivoltandolo quotidianamente, in un sacchetto di tela leggera contenente polvere di spezie come cannella, noce moscata, pepe della Giamaica e iris – quest’ultimo serve anche come fissativo – che sarà catturata tra i chiodi di garofano. Ma forse è troppa grazia in una sola volta.

martedì 14 dicembre 2010

Letture


Giustifico i giorni di assenza dal blog con questo link alla webzine della casa editrice Hevelius, che mi ha chiesto - certo senza rendersi conto delle conseguenze - di scrivere qualche considerazione su un libro che mi fosse caro, da consigliare per i regali di fine anno. Ho scelto Kim, di Rudyard Kipling, da leggere sotto i segni della vitalità, della molteplicità e degli affetti, che credo attualissimi come auspici per i tempi prossimi venturi. Per me è stata l'occasione per indagare i motivi che, dopo tanti anni dalla prima lettura, me lo fanno ancora amare: che ciascuno possa trovarvi qualcosa per sé.

venerdì 3 dicembre 2010

Giardino di Poeta - 12

Questo vento di morte
trova testimonianza
nelle rose deserte
che crollano a distanza.

Il giardino si spoglia
dietro i vetri - al tuo lento
tacco una nera foglia
si incolla sul cemento.


Toti Scialoja, Qui la vista è sui tigli, poesie 1979-1985

lunedì 29 novembre 2010

Hesperides

A proposito degli agrumi dai frutti mostruosi, qualche giorno fa ho postato le riproduzioni di alcune stampe tratte da tre diversi testi pubblicati tra il XVII e il XVIII secolo.

A quel tempo frutti simili prendevano il nome di meraviglie o di bizzarrie ed erano molto pregiati in quanto ritenuti rarità botaniche di origine misteriosa. Solo in tempi relativamente recenti si scopre che le meraviglie sono malformazioni causate dall’infestazione sulle gemme da fiore di un acaro (Eriophyes sheldoni), mentre le bizzarrie sono dovute alla compresenza nel frutto di cellule sia del portainnesto sia della varietà innestata – arancio amaro e limone, ad esempio (una delle possibili forme del chimerismo in natura).

Ma torniamo ai testi; si tratta di Hesperides sive de malorum aureorum cultura et usu libri quator, pubblicato a Roma nel 1646 da Giovan Battista Ferrari, e di Nürbergisches Hesperides oder gründliche Beschreibung der edlen Citronat, Citronen und Pomeranzen, pubblicato a Nürnberg nel 1708 da Johann Christoph Volkamer, cui seguirà nel 1713 Continuation der Nürbergischen Hesperidum oder Fernere gründliche Beschreibung der edlen Citronat, Citronen und Pomeranzen.

Giovan Battista Ferrari (1584-1655), gesuita, già studioso di lingue orientali, lavora per molti anni alle Hesperides, trattato in cui riunisce e compara con metodo scientifico informazioni tratte da testi classici, da autori e da coltivatori contemporanei, dalla propria esperienza e da quella di viaggiatori e di appassionati. È accompagnato nelle sue fatiche da Cassiano dal Pozzo, segretario del Cardinale Francesco Barberini* e importante figura nel panorama culturale del tempo, che, tra l’altro, gli assicura la collaborazione di vari artisti (tra cui spiccano Pietro da Cortona, Nicolas Poussin, Guido Reni) per l’esecuzione delle tavole che completano il testo. Anche la scelta dei soggetti da rappresentare è ben meditata, come testimoniano i vari disegni preparatori, alcuni dei quali, non tutti utilizzati nelle incisioni, sono stati identificati recentemente in una raccolta presso la Royal Library di Windsor Castle e risultano analoghi a quelli fatti realizzare per il Museo Cartaceo dallo stesso Cassiano (si veda l'articolo di David Freedberg da cui è tratta l'illustrazione qui sotto).

 
Hesperides esce dai confini italiani (il latino è la lingua della scienza, come oggi l’inglese) e influenza il lavoro di appassionati e studiosi; tra questi Jan Commelin, fondatore dell’Orto Botanico di Amsterdam, autore tra l’altro del Nederlantze Hesperides, saggio pubblicato nel 1676 sugli agrumi coltivati in Olanda, e che abbiamo già ricordato a proposito dell’Hortus Indicus Malabaricus.

Figlio di un medico, il borghese Johann Christoph Volkamer (1644-1720) sviluppa una passione che lo accomuna alla nobiltà europea e colleziona piante di agrumi che coltiva nel proprio giardino presso Norimberga. Da botanico appassionato, ha un approccio meno rigoroso – meno scientifico – rispetto al lavoro del Ferrari, che pure mostra di conoscere; ma il Volkamer ha un’intuizione per la quale dobbiamo essergli molto grati: nelle numerose incisioni che costituiscono buona parte del lavoro, a ciascuna varietà di agrume è associata l’immagine di una città, una villa o un giardino (molti quelli veneti, soprattutto nella Continuation), oggi preziosi documenti della storia del paesaggio – oltre che di un cambiamento nella percezione dello stesso, non più inteso solo come “sfondo”.

Si tratta dei principali testimoni di un diffuso interesse che proprio tra Sei e Settecento ha il suo acme sia in Italia sia in Europa. Interesse che ha origini molteplici: gli agrumi sono piante che portano frutti d’oro, come nel Giardino delle Esperidi; che mostrano insieme fiori e frutti quasi in avvicendamento perpetuo, come gli alberi del Paradiso Terrestre; che le difficoltà di coltivazione e il numero delle varietà da collezionare fanno perfetti status-symbol per le classi agiate; che grazie agli aromi sprigionati da frutti, fiori e foglie, trovano impiego nella medicina, nella cosmesi e nell’arte culinaria**, tanto da divenire colture di grande valore commerciale.

La loro storia in Occidente attraversa i secoli. Tralasciando quelli raffigurati a Pompei nella Casa del Frutteto, lontani nel tempo e a lungo dimenticati, limoni sono presenti nel giardino descritto dal Boccaccio all’inizio della Terza Giornata del Decameron (giardino che credo debba essere inteso come estrema propaggine geografica e temporale degli esempi spagnoli, siciliani e campani, a loro volta debitori della cultura araba: agli Arabi si deve la re-introduzione degli agrumi, di origine cinese, in Europa); limoni o cedri troviamo in dipinti quattro- e cinquecenteschi (per tutti, la Madonna della Vittoria dipinta da Andrea Mantegna nel 1496 per i Gonzaga, ora al Louvre); dalle corti rinascimentali italiane il gusto per gli agrumi si diffonde nel nord Europa, mentre della coltivazione nelle cedrare come pratica diffusa nel nord Italia parla Vincenzo Scamozzi ne L'idea dell'architettura universale, pubblicato a Venezia nel 1615***:

“I luoghi delle Cedrare siano del tutto all’aspetto di mezo dì; e massime in quella parte della Lombardia, e quì intorno à Venetia: ove da non molto tempo in quà ad imitazione della Riviera di Salò, ove riescono meravigliosamente, si sono introdotte, e vi riescono con molta felicità, come à Verona ad Avesa nel Suburbano di Casa de Signori del Bene, & altri molti à Vicenza […]. […] Oltre a ciò le Cedrare deono esser in qualche luogo elevato, e pendente, ò dalla natura, come à Vicenza, & à Verona, overo rilevate dal piano con arte, come le rimanenti, con mura à meza altezza d’huomo; acciò che siano solive, e lungi dalle humidità.”

Queste speciali serre, in cui le piante erano coltivate sia in piena terra sia in vaso, vanno trasformandosi da strutture a pannelli lignei, rimossi durante la bella stagione, a veri e propri edifici in muratura, talvolta molto ornati e compiutamente inseriti tra le meraviglie dei maggiori giardini. L’Hortus Palatinus, che nasce a Heidelberg nel 1614, ospitava entrambe le tipologie, mentre a Versailles, tra il 1684 e 1686, è realizzata la grandiosa Orangerie, capace di dare riparo a un migliaio di arbusti e di cui la sola galleria centrale si sviluppa per più di 150 metri.

Sul Lago di Garda intanto la coltivazione degli agrumi, già ricordata dal Volkamer, diviene un’industria, che alimenta soprattutto i mercati austriaci. Goethe sulle pagine del suo famoso diario, nei primi giorni del “viaggio nel dolce paese della bellezza” (8 sett. 1786), più volte annota quanto gusti piaceri anche più semplici delle meraviglie naturali o delle opere dell’uomo, descrivendo la frutta saporita di inizio settembre, rara a nord delle Alpi: uva, pesche, fichi, pere “che non è meraviglia se son deliziose nel paese dove già allignano i limoni” (12 sett. 1786). Che forse sono il paradigma di ciò che il letterato tedesco cerca in Italia. Attraversando il Lago di Garda in barca, Goethe osserva attentamente i particolari delle coltivazioni di agrumi lungo la riva bresciana; assieme agli ulivi carichi di bacche scorti scendendo a Torbole e ai rametti di cappero e cipresso raccolti al Giardino Giusti di Verona, gli agrumi illustrano quanto Goethe percepisca in questi lembi di territorio un’anticipazione del paesaggio mediterraneo cui sta andando incontro.****
 


* Curatore degli Horti Barberini, l’orto botanico privato del cardinale Francesco Barberini, il Ferrari nel 1632 pubblicava Flora, seu De florum cultura, un trattato di floricoltura.

** “Vendi le frondi [dei cedri] per ornar mazzetti, e verdeggiar le tavole, e [per] la salsa verde. I fiori oltre a venderli, a minuto, & a peso d’oncia à guissa de i più pretiosi aromati alla piazza, si stillano facendone acqua odorifera […]; se ne fa oglio odorifero […]; con gustoso lusso si confettano; non dico di tramezarli ne’ panni bianchi, e coloriti, per esser noto à tutti.
[…] fino putrefatto marzo il Limone vendesi per servitio de colori, con quale il bellissimo incarnato si fa, overo per dar nero lustro à corami, onde quel diligente servo con guscie di Limone, ò Naranci, già strette, e cavato il sugo, misticando con quella poca d humidità, che ci resta, tinta di padella, ò caldaia, faceva parer nove le vecchissime scarpe del padrone.”
Vincenzo Tanara, L'economia del cittadino in villa, Bologna, 1653.

*** Scamozzi, L'idea dell'architettura universale, parte prima, libro terzo, cap. XXIII, pp. 325-326.

**** Nel Wilhelm Meisters Lehrjahre, Mignon recita i ben noti versi:

Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn,
Im dunkeln Laub die Goldorangen glühn,
Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,
Die Myrte still und hoch der Lorbeer steht?
Kennst du es wohl? Dahin!
Dahin möcht' ich mit dir,
O mein Geliebter, ziehn.

Kennst du das Haus? Auf Säulen ruht sein Dach,
Es glänzt der Saal, es schimmert das Gemach,
Und Marmorbilder stehn und sehn mich an:
Was hat man dir, du armes Kind, getan?
Kennst du es wohl? Dahin!
Dahin möcht' ich mit dir,
O mein Beschützer, ziehn.

Kennst du den Berg und seinen Wolkensteg?
Das Maultier such im Nebel seinen Weg,
In Höhlen wohnt der Drachen alte Brut;
Es stürzt der Fels und über ihn die Flut.
Kennst du ihn wohl? Dahin!
Dahin geht unser Weg!
O Vater, laß uns ziehn!


Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Nel verde fogliame splendono arance d'oro
Un vento lieve spira dal cielo azzurro
Tranquillo è il mirto, sereno l'alloro
Lo conosci tu bene? Laggiù!
Laggiù vorrei con te, 
O mio amato, andare!

Conosci tu la casa? Su colonne riposa il suo tetto
La sala splende, rifulgono le stanze,
Statue di marmo immobili mi guardano:
Ma a te, povera bimba, che hanno fatto?
Lo conosci tu bene? Laggiù,
Laggiù vorrei con te,
O mio signore, andare!

Conosci il monte, il suo sentiero tra le nuvole?
Cerca il mulo la strada nella nebbia,
Nelle grotte si cela l’antica stirpe dei draghi;
La roccia precipita, su di essa il torrente.
Lo conosci tu bene? laggiù,
Laggiù porta il sentiero!
Oh padre, andiamo!




martedì 23 novembre 2010

Les feuilles mortes se ramassent à la pelle

... ma anche no.

Forse l'ordine; o forse le conseguenze del caso (pur con il rischio di scivolare).
 
Les feuilles mortes


Le Feuilles Mortes

Oh, je voudrais tant que tu te souviennes,
Des jours heureux quand nous étions amis,
Dans ce temps là, la vie était plus belle,
Et le soleil plus brûlant qu'aujourd'hui.
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
Tu vois je n'ai pas oublié.
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
Les souvenirs et les regrets aussi,
Et le vent du nord les emporte,
Dans la nuit froide de l'oubli.
Tu vois, je n'ai pas oublié,
La chanson que tu me chantais...
C'est une chanson, qui nous ressemble,
Toi qui m'aimais, moi qui t'aimais.
Nous vivions, tous les deux ensemble,
Toi qui m'aimais, moi qui t'aimais.
Et la vie sépare ceux qui s'aiment,
Tout doucement, sans faire de bruit.
Et la mer efface sur le sable,
Les pas des amants désunis.
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
Les souvenirs et les regrets aussi
Mais mon amour silencieux et fidèle
Sourit toujours et remercie la vie
Je t'aimais tant, tu étais si jolie,
Comment veux-tu que je t'oublie?
En ce temps-là, la vie était plus belle
Et le soleil plus brûlant qu'aujourd'hui
Tu étais ma plus douce amie
Mais je n'ai que faire des regrets
Et la chanson que tu chantais
Toujours, toujours je l'entendrai! 

Jacques Prévert, 1945.


A Cicciuzza.
E pure a Paolo.

sabato 20 novembre 2010

Altre meraviglie in tempi non sospetti - Continuazione













Copyright: Catalogue of digitized books of Archibishop Chateau in Kroměříž
(forse avrei bisogno dell'autorizzazione scritta - ma magari mi salvo, da buon italiano - ter).

Riferimenti:

Altre meraviglie in tempi non sospetti












Copyright: Catalogue of digitized books of Archibishop Chateau in Kroměříž
(forse avrei bisogno dell'autorizzazione scritta - ma magari mi salvo, da buon italiano - bis).

Riferimenti:

Meraviglia in tempi non sospetti













Copyright: Catalogue of digitized books of Archibishop Chateau in Kroměříž
(forse avrei bisogno dell'autorizzazione scritta - ma magari mi salvo, da buon italiano).

Riferimenti:

martedì 16 novembre 2010

Gordonia chrysandra o la luce di novembre

Erica gracilis, viole, crisantemi, ciclamini... va tutto bene per superare i digiuni dell'inverno settentrionale; però è come nutrirsi di cibo precotto; molto più appagante - e salutare, via! - veder fiorire la pianta che si è coltivata per tutto un anno nella speranza (speranza, mai certezza) che ci regali, anche per sole due settimane, un poco di meraviglia; perché, quando avviene, ci si può sentire per qualche momento più in sintonia con i moti dell'universo - o, almeno, con il passare delle stagioni.

Il tè apre gli ultimi boccioli, le piante di Camelia sasanqua sono in piena fioritura, ma questo è il momento di gloria per un'altra teacea: Gordonia chrysandra - dagli stami d'oro. Conosciuta grazie a un articolo di Guglielmo Betto uscito sulla rivista "Gardenia" degli anni fulgenti, ritrovata nei vivai del Lago Maggiore, scopro che è una pianta ancora trascurata - anche Ippolito Pizzetti, nella Garzantina, la ignora. La coltivazione non è facilissima (si tratta di convincere la pianta di trovarsi ancora nelle foreste montane tropicali dello Yunnan meridionale) ma richiede pochi accorgimenti: esposizione a nord o a est d'estate, oppure a sud, ombreggiata da un albero; un riparo dal freddo più intenso in inverno; terra acida e irrigazione attenta; i guai peggiori li fanno il gran caldo e gli improvvisi abbassamenti di temperatura dell'autunno inoltrato che la pianta sopporta, ma i fiori no.
  
Gordonia chrysandra 02

Non l'ho mai vista ammalata né attaccata da parassiti - tranne dalle cinciarelle (se parassiti si possono chiamare) che, per protestare quando tardo a mettere semi  e noci sulla mangiatoia, becchettano furiosamente i fiori non ancora aperti per raggiungere gli stami...
Cercatela, vale la pena di un viaggio fino a un vivaista specializzato; un esemplare di un paio di metri è stupefacente, ma basta una piantina di un paio di spanne per apprezzare la combinazione tra i colori basilari delle foglie, scure, degli stami e dei petali, quasi immateriali nella luce soffusa di novembre.
  
Gordonia chrysandra 01

Ma preferisco riportare per intero l'articolo di Guglielmo Betto - sperando di non incorrere nelle ire di qualcuno. Vi troverete informazioni utili e molto altro.

(Aggiungo soltanto: recentemente è stato proposto di trasferire molte delle circa quaranta specie dal genere Gordonia al genere Polyspora perciò sul Web potreste trovarle con questo nuovo nome; inoltre, in Cina anche Gordonia è stata studiata nella ricerca di sostanze di uso medicinale).




 
Guglielmo Betto, Lenta nel crescere tarda nel fiorire, Gardenia, dicembre  1984, anno I, n. 8, pagg. 84-87.

Sul numero successivo ella rivista esce un articolo di Guido Piacenza, che ricorda: "La Gordonia può fiorire in questo mese (o in febbraio, come le mie che ritardano a causa della bassa temperatura notturna [...])".

giovedì 11 novembre 2010

Giardino di Poeta - 11

Quanti fossero i pioppi che importanza
può avere? so che c'erano, che adesso
non ci sono, che a volte m'è concesso
di vederli, immenso fruscio, sostanza

visibile del vento - e so che è ancora
questa linea che separa da
catastrofi nere o abbaglianti la
grigia dolcezza del giardino. Sfioralo

con gli occhi, soltanto, il sipario, lascia
che di là vada come sai che è andata,
che bruci la fabbrica bombardata
dalle fortezze volanti, che l'ascia

s'abbatta sulle betulle, che i morti
assassinino e perdonino i morti.


G. Raboni, Quare tristis, 1998.

martedì 2 novembre 2010

Cimenti dell'invenzione


State lavorando a un nuovo progetto e vi accorgete che un pensiero estraneo vi osserva da sopra la spalla. Non è un pensiero molesto, anzi, ma è proprio mentre indugiate sulla sua piacevolezza che vi sottraete ai vostri doveri professionali: perché mai combattere qualcosa di così dolce? E allora, se allontanarlo è un atto che le vostre inclinazioni rifiutano, provate invece a coinvolgerlo, lasciatelo intervenire: la sua diversità potrebbe portare ricchezza, il suo disturbo trasformarsi in beneficio.

In un progetto l'omogeneità è ritenuta condizione imperativa, come le unità di tempo e di luogo nel teatro classico; tuttavia la coerenza del lavoro potrebbe risiedere anche nel felice rapporto tra elementi eterogenei - forse ancor più che nella reiterata conferma di materiali o stilemi, che per contro talvolta ha origine nella povertà dell'invenzione, rifugiatasi in una sola idea - quando non in una sola "trovata".

Esistono luoghi a cui fare riferimento, dove il risultato delle azioni e delle sospensioni dell'azione lungo una storia secolare è mirabile proprio per la compiuta sintesi di riferimenti tra loro diversi quanto lontani nel tempo, raccordati soltanto (!) dal filo sottile di una costante sensibilità, di una stessa attenzione. Si guardi Chatsworth House, nel Derbyshire, dove per quasi cinquecento anni ogni epoca porta il proprio contributo, ciascuno ancora leggibile eppure inscindibile dalgi altri.

Nella seconda metà del '700 Capability Brown ne scioglie le geometrie barocche così da fondere il giardino con il parco e il parco con il paesaggio; eppure tutto si incardina ancora sulla scala d'acqua della Cascade realizzata cinquanta anni prima, mentre lo sguardo è attirato verso l'orizzonte dall'elisabettiana Hunting Tower, fatta erigere da Bess of Hardwick in alto sulla collina, ora resa misteriosa dal bosco impiantato dal landscaper. E permeati dal gusto barocco per la meraviglia sono sia l'Emperor Fountain del 1843, capace di un getto di novanta metri, sia Revelation, la scultura che si schiude mossa dall'acqua, erede di più antichi automi idraulici, collocata nel 1999 nella parte settentrionale del parco. Così come la teatralità barocca si manifesta pienamente nella Serpentine Hedge, interamente di faggi (1.500, molto fitti), piantata nel 1953 e ispirata ai crinkle-crankle walls eppure affine, in altra scala, alla forma delle catene d'acqua dei giardini italiani. Qui infatti vediamo non una chiusura lungo il confine della proprietà, ma due tratti di siepe sinusoidali, affiancati e speculari, che per quasi duecento metri scivolano sul pendio dal Ring Pond giù verso il busto raffigurante il sesto Duca del Devonshire - the Bachelor Duke.

Lo ritengo uno dei luoghi più suggestivi di Chatsworth - sicuramente il più "metafisico".  Nell'economia dei mezzi, dovrebbe ricordare ai paesaggisti che non sono chiamati a lavorare con la terra, l'acqua o le piante, ma con lo spazio; alla Serpentine Hedge non si percepiscono le siepi o la scultura, ma il vuoto al centro, puro spazio che scorre.



Ringrazio Stefano Marinaz per lo spunto - e per le fotografie!

domenica 31 ottobre 2010

Giardino di Poeta - 10

Ah se almeno potessi,
        suscitare l’amore
    come pendio sicuro al mio destino!
    E adagiare il respiro
        fitto dentro le foglie
    e ritogliere il senso alla natura!
        O se solo potessi
        toccar con dita tremule la luce
        quella gagliarda che ci sboccia in seno,
        corpo astrale del nostro viver solo
        pur rimanendo pietra, inizio, sponda
        tangibile agli dei…
        e violare i più chiusi paradisi
        solo con la sostanza dell’affetto.


Alda Merini, La Terra Santa, 1984.

domenica 24 ottobre 2010

Un campo di dalie

Il genere Dahlia è originario del Messico e dell'America Centrale; sappiamo che era già coltivato prima dell'arrivo degli Spagnoli e che gli Aztechi ne conoscevano una forma a "fiori doppi" - che non si trova allo stato spontaneo - come documentano il manoscritto conosciuto come Libellus de Medicinalibus Indorum Herbis, del 1552, e il Rerum Medicarum Novae Hispaniae Thesaurus, pubblicato nel 1651, ma che si basa su manoscritti del 1575.*

Le vicende relative all'arrivo delle dalie in Europa sono complesse, ma è certo che solo dalla fine del XVIII secolo, a partire dalla Spagna, se ne inizia a diffondere la coltivazione. Il fatto che i semi provenissero non da piante spontanee ma da varietà coltivate (e forse ibridate) da lungo tempo in Messico, determinò una certa confusione nel riconoscimento dei caratteri distintivi e quindi nella classificazione. Le prime piante fiorite in Spagna nel 1789 furono descritte nel 1791 come Dahlia pinnata - cui seguirono Dahlia rosea e Dahlia coccinea, sebbene non a tutti questi nomi fosse poi attribuita la stessa dignità scientifica. Oggi, quando gli studi non si basano più solo su pochi esemplari coltivati negli orti botanici, ma si effettuano sul campo esaminando intere popolazioni, le specie riconosciute sono una trentina, sebbene solo poche rientrino tra le antenate delle moderne cultivar. Le dalie destinate ai giardini infatti hanno seguito la loro strada proprio a partire dai primi semi giunti in Europa, e di quelli portano con sé tutta la ricchezza genetica.

Le dalie sono per lo più autosterili; i fiori devono perciò ricevere il polline da un'altra pianta per essere fecondati; questo incrementa l'eventualità di incroci tra specie diverse e dunque l'interpolazione tra i patrimoni genetici delle due specie parenti. Ma c'è di più: gli incroci favoriscono l'insorgere della poliploidia, fenomeno per cui di un cromosoma esistono più copie, anziché solo due. Nelle dalie si arriva a otto copie: in ciascun individuo perciò l'espressione di ogni carattere è modulata con grande variabilità ed è frequente il manifestarsi di nuovi tratti nelle dimensioni della pianta, nella forma o nel colore dei fiori eccetera. Con grande gioia - e talvolta profitto - del coltivatore.

Caratteri latenti possono esprimersi improvvisamente, senza cause apparenti; è accaduto al mio esemplare di Dahlia "Vulkan", che tra gli steli dai fiori rosso vermiglio ne ha prodotto uno dai fiori giallo oro, mantenendo la variazione negli anni successivi. Due piante in una? Piuttosto un caso di doppia personalità botanica. Episodi simili sono possibili, anche se diversamente probabili, in ciascuna delle migliaia di varietà disponibili sul mercato. Da una dalia, un campo di dahlie.
 
Dahlia "Vulkan" 02

Dahlia "Vulkan" 03

Dahlia "Vulkan" 04

Rudolf Borchardt** prende spunto da queste piante per affrontare una questione interessante: "La denominazione botanica chiama «variabile»*** la dalia perché essa, appena finita in mano all'uomo, si è moltiplicata in una infinita varietà di forme e di colori; [...]. Come avrebbe potuto, l'uomo, rendere ricchi e «doppi» i variopinti, ma semplici gusci a piede di gallo del ranuncolo orientale, o le mezze cupolette delle peonie europee e asiatiche? Dove avrebbe preso la materia per questa operazione, se le piante stesse non l'avessero già avuta in potenza, serbata nascosta per tempi migliori?".

Michael Pollan****, più recentemente, ricorda che l'uomo, diversamente da come appare nella concezione antropocentrica del mondo (anche di derivazione religiosa), non solo è immerso nei meccanismi che regolano le relazioni tra i viventi ma che di quelle relazioni può essere pure l'oggetto inconsapevole.

"Nel corso del tempo, il desiderio umano è entrato nella storia del fiore, e il fiore ha continuato a fare ciò che ha sempre fatto: divenire sempre più bello agli occhi dell'animale uomo, racchiudendo nel suo essere più profondo anche i nostri tropi e le nostre idee più improbabili. [...]. A turno abbiamo fatto la nostra parte, moltiplicando i fiori in modo insensato, trasportandone i semi per tutto il pianeta, scrivendo libri per diffonderne la fama e assicurarne la felicità. Per il fiore è stata la solita vecchia storia, un altro grandioso contratto evolutivo con un animale interessato e piuttosto ingenuo [...]." 

I giardini sono gli ambienti che i fiori sfruttano per riprodursi.
I giardini di fiori sono luoghi ad alta biodiversità. Moltiplichiamoli!


* Come molte piante dotate di organi di riserva sotterranei, le dahlie potrebbero essere un'interessante fonte sia di amidi sia di sostanze potenzialmente medicinali (ad esempio antimicotiche, le stesse che la pianta usa per la propria difesa, essendo i tuberi appetiti dagli animali e soggetti agli attacchi di vari microrganismi); eppure, contrariamente al caso della patata, anch'essa americana, inizialmente coltivata in Europa come curiosità botanica, la selezione della dahlia ha riguardato solo i caratteri ornamentali, nonostante fosse entrata negli interessi degli spagnoli in quanto appartenente alla farmacopea dei nativi.
** Rudolf Borchardt, Il giardiniere appassionato, Milano, 1992.
 *** Nel 1802 in Germania una revisione botanica (che poi si scoprì avere basi errate) fece cambiare nome al genere, che da Dahlia divenne Georgina; il nuovo nome rimase nell'uso comune dei paesi di lingua tedesca. Dahlia pinnata e Dahlia rosea furono riunite sotto il nome Georgina variabilis, rimasto poi in Dahlia variabilis fin a quando si dimostrò un'attribuzione inconsistente.
 **** Michael Pollan, La botanica del desiderio. Il mondo visto dalle piante, Milano, 2005. Michael Pollan riporta come esempi la peonia, la rosa e il tulipano; accenna al garofano, ma dimentica del tutto la dalia. Eppure la storia questa pianta in compagnia dell'uomo non è meno lunga di quella degli altri fiori nominati.

Qui interessanti notizie e belle varietà.