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mercoledì 5 gennaio 2011

A un livello terra-terra - 01

“Quanti bicchieri d’acqua devo dare al ficus ogni settimana?”. È una domanda (con tutte le varianti: al prato, alle rose…) che mi sento rivolgere spesso; equivale a chiedere “Quanti chilometri fa con un litro?”. La pianta è intesa come macchina dai consumi programmati; mentre dovrebbe essere ben chiaro che, in quanto essere vivente, le sue esigenze cambiano in base alle caratteristiche dell’ambiente in cui si trova... Oppure: “Perché la mia camelia non fiorisce? Nel vaso ho messo terriccio acido!”. Soddisfare una delle condizioni (pH del substrato) non è sufficiente (com’era il drenaggio? e gli elementi nutritivi?); anche preoccuparsi del substrato senza porlo in relazione con la quantità di luce disponibile e questa con la temperatura e questa ancora con l’umidità dell’aria (eccetera eccetera) non è sufficiente. E, ancora, si deve tener conto che, se l’insolazione e le condizioni atmosferiche sono condizionate da eventi a grande o grandissima scala, le caratteristiche del terreno invece subiscono modifiche a livello locale – anche nel sistema (quasi) isolato di un vaso da fiori: in breve tempo il pH del terriccio acquistato come “ideale per acidofile” può essere neutralizzato dall’acqua delle annaffiature o dalle concimazioni. Panta rei os potamòs. Come un fiume – o come nella terra.

Immaginate un parallelepipedo di spugna, a grana fine, collocato verticalmente su un vassoio. Immaginate poi di distribuire sulla superficie della spugna un po’ di polvere colorante e, da ultimo, di versarvi sopra lentamente dell’acqua.

L’acqua penetrando nella spugna porterà con sé la polvere colorante; versando molto liquido, la polvere colorante sarà lavata via; versandone poco, si formerà uno strato colorato visibile sui fianchi della spugna nella parte mediana.

Immaginate ora di aggiungere una seconda polvere colorata, più grossolana della prima, che l’acqua sciolga e trasporti più lentamente: dopo aver versato poco liquido, si vedranno due strati separati di colore.

Se poi scaldaste e ventilaste la superficie della spugna, l’acqua che questa trattiene inizierebbe a evaporare facendo risalire quella filtrata nel vassoio, che porterebbe con sé verso l’alto i pigmenti prima depositati nello spessore della spugna, mescolandoli.

Avreste così un modello (anche se grossolano) delle dinamiche tra le parti che contribuiscono alla formazione di un suolo: la roccia che disgregandosi ne forma l’ossatura (la spugna); gli apporti di materiali organici e inorganici (le polveri colorate); l’acqua (l’acqua!). Il modello tuttavia non tiene conto delle interazioni chimiche tra le parti che avvengono in natura. Soprattutto non descrive le trasformazioni che il suolo subisce nel tempo (ovvero il processo pedogenetico).

I vari sistemi di classificazione in uso riconoscono nella sezione (profilo) di un suolo la presenza di strati sovrapposti; lo strato (orizzonte) superficiale è indicato con la lettera O ed è costituito da materiale organico più o meno decomposto; sotto si trova l’orizzonte A, con una zona più scura che riceve dall’orizzonte superiore la materia organica umificata e una più chiara sottoposta al dilavamento da parte dell’acqua piovana; da questo orizzonte gli ossidi di ferro e alluminio, la sostanza organica e colloidi argillosi sono trasportati nell’orizzonte successivo B, dove si accumulano; sotto a questo, l’orizzonte C, costituito prevalentemente da roccia più o meno frantumata – la roccia madre su cui poggia il suolo. Le caratteristiche chimiche e fisiche degli orizzonti dipendono in gran parte dal clima e dunque variano da una zona geografica all’altra.

(Qui naturalisti dell' AIN al lavoro su una sezione di suolo.) 

Gli studi pedologici nascono soprattutto dall’urgenza di individuare i suoli con le migliori potenzialità agronomiche e dalla ricerca di dati utili all’elaborazione di processi di conversione dei suoli stessi in terreni di coltura.
Il più diffuso sistema di classificazione è proprio quello della FAO, utilizzato per redigere carte dei suoli a livello mondiale.
Nell’agronomia quindi un suolo, dopo esser stato analizzato nelle sue costituenti fisiche e chimiche – granulometria (sabbioso, argilloso, limoso ecc.), pH (acido, basico), concentrazione di carbonati, di sostanze azotate ecc. – è poi inteso come materiale grezzo da trasformare con la lavorazione meccanica e con l’apporto di prodotti chimici.

Questa visione “da laboratorio” si rivela però appena meno rozza del modello della spugna: non basta reintegrare chimicamente quel che è stato sottratto quando tutto il processo pedogenetico è alterato – tanto che a quel punto non si può più parlare di suolo; lo dimostra macroscopicamente la sempre più ridotta capacità di produzione di un terreno in non moltissimi anni di coltivazioni intensive.

Il suolo non è un substrato – è l’ambiente nel/sul quale vivono complesse comunità di esseri viventi che ne sono condizionate e che a loro volta vi inducono alterazioni.

(continua)

1 commento:

  1. La pianta come animale ammaestrato: bestia da circo che deve eseguire numeri a comando, innaturali e forzati, per la gioia degli occhi del padrone ed il suo vanto di fronte agli ospiti. E' buttata giù dura, ma sarebbe più tollerabile se a questo corrispondesse una tensione verso la comprensione dell'altro, uno scambio, una condivisione. Uno straccio di amore.

    Buona epifania, eh.

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