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lunedì 10 gennaio 2011

Sulla percezione del paesaggio

Una domanda come quella nata su Erba Volant a proposito della percezione del paesaggio meriterebbe un ragionamento articolato e sostenuto da dati sicuri; il che non è nelle mie capacità; tuttavia sento l’argomento di tale importanza che desidero contribuire almeno con qualche considerazione.

Allora, ab ovo. Accanto ai tradizionali gradi d’interpretazione della Bibbia – letterale, allegorico o figurale, morale e anagogico – per il passo “maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo” (Genesi 3, 17 nella versione C.E.I.) si potrebbe azzardare anche una lettura “termodinamica”, dove il dolore non sarebbe quello dovuto alla fatica fisica, superabile con l’uso delle macchine, ma corrisponderebbe all’inevitabile aumento di entropia, che l’uso delle macchine piuttosto accelera, e alla conseguente diminuzione delle risorse disponibili. 

Gli organismi capaci di fotosintesi immettono nel sistema composti ad alto potenziale energetico. L’uomo onnivoro è talvolta consumatore primario (ad esempio quando si mangia le alghe), talvolta secondario (si mangia il pesce piccolo che mangia le alghe) o terziario (si mangia il pesce grosso che mangia il piccolo) eccetera eccetera. Se in un certo tempo l’energia consumata (che non significa solo “mangiata”, ma pure “bruciata” – in tutte le accezioni del termine) è inferiore a quella immessa, tutto bene; se arriviamo a mangiarci più alghe di quelle che servono per reintegrare l’energia nel sistema, evidentemente questo collassa. A che punto siamo? Scompensi già se ne vedono: consumandone, sottraiamo energia ad altri elementi della comunità biologica e i più fragili ne soffrono fino a estinguersi. In altri casi la capacità di rigenerazione è così compromessa che un intero ambiente sparisce.

La visione della natura come qualcosa a disposizione dell’uomo è propria soprattutto della cultura occidentale (e dà ancora una particolare sfumatura alla dizione paesaggio antropizzato – come se questo seguisse regole proprie), mentre l’idea di una comunione tra uomo e natura è più frequente nelle società orientali – il che non ha evitato loro di essere aggressive verso l’ambiente… ma forse si tratta di un recente tributo al dio PIL. La dicotomia uomo-natura, con l’uomo in posizione dominante, porta a pensare che la natura continuerà a perpetuarsi per quanto la si consumi – non è forse stata creata proprio a questo scopo? 

È vero piuttosto che l’arrivo dell’uomo in un luogo produce necessariamente cambiamenti nella comunità biologica che lo abita, la cui rete alimentare (i.e. di scambio energetico) risulta infine alterata. L’uomo inoltre tende a modificare attivamente l’ambiente in cui si trova, per renderlo conforme alle proprie necessità; quando i mezzi per attuare la trasformazione sono poco efficaci, si radica la percezione della natura come entità ostile – la foresta in cui dimora il lupo – e ogni frazione di terra sottrattale diviene una conquista della civiltà; la conversione del selvatico in coltivato è vista come cosa buona in sé – l’unico limite riguarderebbe le capacità tecniche. 

Tuttavia una volta aumentata l’efficacia dei mezzi, le trasformazioni accelerano – ma anche le conseguenze di queste divengono palesi più rapidamente, manifestandosi in alterazioni non reversibili o almeno non in tempi biologici. Le conseguenze delle azioni non sono evitabili – provengono dal nostro essere-in-questo-mondo e si manifestano secondo le “leggi di natura”. Anche se la caduta in avanti dell’intero sistema non è evitabile – lo dice la termodinamica – è certo vantaggioso sforzarsi di modulare le azioni in modo da arrivare alla fine attraverso successivi stati di equilibrio. È un guadagnare tempo rallentando le trasformazioni. Dite che è un cattivo guadagno?

Allora i paesaggi sono per me rassicuranti quando mi paiono espressione di un raggiunto (temporaneo, certamente, tuttavia longevo) stato di equilibrio; suscitano orrore quando sono la manifestazione di violenza miope e ingorda.

(L’Eden rifatto e migliorato della Patrizia Cavalli, nella concretezza credo somigli molto alla campagna disegnata da Hayao Miyazaki in Totoro).


Già da molto tempo, a differenza del Conte Rodolfo, tornando nella campagna tra Verona e Mantova dove sono nato, non posso più dire “Vi ravviso o luoghi ameni”. La tessitura dei luoghi ovunque è stata modificata: i campi sono stati allargati, i fossati di scolo sono profondi e scavati di nuovo quasi ogni anno; sono sparite le siepi rustiche, i salici capitozzati e i filari d’alberi e con essi tutta la vegetazione “minore” e la fauna che prima li abitava (quando riusciva a sopravvivere negli interstizi lasciati dall’attività umana). Nell’insieme un impoverimento e un forte danno al sistema biologico – di cui anche il coltivato fa parte! – pure di scarso vantaggio economico e inoltre dovuto probabilmente a “futili motivi”, secondo un processo che si potrebbe schematizzare così: acquisto un mezzo meccanico per ridurre la fatica e aumentare la produzione – poi acquisto un nuovo potente mezzo meccanico per produrre ancora di più e faticare ancora di meno – e ancora in questo modo anche se l’aumento della produttività ormai è minimo – mentre alla fine il trattore e l’escavatore sono talmente grandi da costringermi a dimensionare i campi non alle esigenze dell’ambiente da cui anch’io traggo nutrimento, ma alle macchine stesse. Allargo i campi chiudo i canali estirpo alberi e siepi. Un’idea di progresso che ancora permane.

Dove vivo ora, in Valpolicella, la situazione sembra migliore e le coltivazioni appaiono in armonia con le aree più selvatiche (senza illuderci che sia rimasto qualcosa di veramente “spontaneo”); credo che ciò derivi, piuttosto che dalla consapevolezza dell’interdipendenza tra vicende umane e vicende di natura, da vecchie abitudini mescolate a considerazioni sulle difficoltà di rendere produttivi i fianchi scoscesi delle colline, ancora coperti da boschi. Guardare il paesaggio qui mi dà ancora molto piacere; tuttavia si trova in una condizione di grande fragilità. Alcuni segni sono evidenti, come le cave di pietra, altri sono più subdoli, come l’inquinamento delle acque sotterranee a causa degli allevamenti di polli e maiali; alcune alterazioni hanno cause lontane: lo scarso guadagno sulla vendita della frutta dovuto al complicarsi della filiera commerciale ha fatto sparire in pochi anni moltissimi degli alberi di ciliegio che caratterizzavano la valle insieme a vigneti e ulivi – e intanto nessuno più pianta cipressi all’ingresso delle tenute (no i me piase mia! i é roba da cimitero!)…
  
Valpolicella

Chi scendendo in Italia per il Grand Tour riconosceva nell’ordine della campagna tra Vicenza e Padova il più bello dei giardini del Veneto, oggi troverebbe cartelloni pubblicitari o capannoni allagati. Serve qualche altro segnale?

(Invece non amo i campi di tulipani per gli stessi motivi che non mi fanno amare le aiuole mocromatiche e invariabili caratteristiche dei parchi di divertimento coatto e del “verde pubblico” di terza categoria – la maggior parte…).

(E i tulipani si osservano da vicino).

Tulipa virosata

3 commenti:

  1. @ Paolo ... ehm, non doveva essere una critica?
    (grazie!)

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  2. Rosso, è proprio una critica (positiva) di chi è abituato ad applicare acuta analisi critica ;-)

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