NO, NON È UN BLOG DI GIARDINAGGIO
MA POTRESTE TROVARE QUEL CHE NON STATE CERCANDO


lunedì 6 settembre 2010

Giardino di Poeta - 08

(Lo sconvolgimento che la perdita genera e il dolore che da questo deriva, sebbene lontano - anche nel tempo, chiamano alla compassione, alla partecipazione. Allora la serenità, substrato e frutto del giardino, appare sterile; la bellezza, con cui il giardino si manifesta, appare inutile; la separatezza e l'autosufficienza che gli sono propri sembrano trasfigurarsi nell'egoismo).


Sette Canzonette del Golfo


Ah letizia del mattino!
Sopra l'erba del giardino
la favilla della bava,
della bava del ragnetto
che s'affida al ventolino.

Lontanissime sirene
d'autostrada, il sole viene!
Che domenica, che pace!
È la pace del vecchietto,
l'ora linda che gli piace.

Le formiche in fila vanno.
Vanno a fare, ehi! qualche danno
alle pere già mature...
Quanto sole è sul muretto!
Le lucertole lo sanno.


Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.

Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.

Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!

Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.

E se anche potessi, o genti indifese,
ho l'arabo nullo! Ho scarso l'inglese!

Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?

Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.


Se la tazza mi darai
che mi piace, la mia tazza
con il manico marrone,
gentilissima ragazza,
tu felice mi farai.

Il suo manico ha il colore
del più vivo e ricco tè
ma riflette anche il turchino
del leggero cielo se
è leggero come te.


Gli imperatori dei sanguigni regni
guardali come varcano le nubi
cinte di lampi, sui notturni lumi
dell'orbe assorti in empi o rei disegni!

Già fulminanti tra fetori e fumi
irte scagliano schiere di congegni:
vedi femori e cerebri e nei segni
impressi umani arsi rappresi grumi.

A noi gli dèi porsero pace. Ai nostri
giorni occidui si avvivano i vigneti
e i seminati e di fortuna un riso.

Noi bea, lieti di poco, un breve riso,
un'aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.


Come presto è passato l'inverno
fra clamori terribili e vani!
Le battaglie di popoli estrani
che mai sono in confronto all'eterno,
all'eterno degli ippocastani
che dai ceppi si industriano lenti
a sperare germogli lassù?

E tu assorta graziosa annoiata
sul terrazzo, in pigiama pervinca,
forse chiedi al mattino che vinca
come il sole la bruma ostinata
così il bene sui campi cruenti?
Ma è domenica, è marzo: non senti
che un altr'anno, e il suo peggio, svanì?


Aprile torna e a sera un frescolino
irrita gote di ragazze accese:
in un palio ciclistico protese
volanti rubiconde mutandine.

Come rauche ora vociano parole
quasi laide nell'aria della sera!
Fu dolce, in altro tempo, primavera.
Godono pepsi cola ignude gole.

I ragazzi le annusano. Una bella
passò, di zinne e deltòidi ribaldi
e d'altro che acre un dì mi fu diletto.

Ma come mai sensibile diletto
trovar non so che me attonito scaldi?
Sì, d'aprile il dormire è cosa bella.


Se mai laida una limaccia
quando a ottobre l'aria è spenta
lenta bava perse lenta
che di lunga e liscia traccia
porri o sedani segnò,

metaldèide in grigi grani
fai che inghiotta; e a globo stretta
plasma e anima rimetta.
Quanti soli già lontani
la lucertola mirò!

Lento a dèi crudeli e ignoti
va il mio bruno ultimo fiele...
Dove volgi, ansia fedele?
A che vomito mi voti,
cara meta che non so?




Franci Fortini, da Composita Solvantur, 1994. 

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