Giovedì visito il Florshow organizzato da PadovaFiere spa presso “l’area di commercializzazione agroalimentare di Veronamercato”; seconda giornata delle tre previste, metà pomeriggio: un centinaio gli espositori, molti meno – in quel momento – i visitatori; ma forse non è l’ora più adatta per gli affari; di certo gli sguardi sembrano distanti, chissà se più per la stanchezza o più per quello stato di sospensione che prende gli standisti quando rimangono in attesa per troppo tempo.
Non è dopo una visita di un paio d’ore che si può giudicare in quale misura l’obiettivo degli organizzatori sarà raggiunto: “Proporre un nuovo modello di manifestazione, che metta al centro la possibilità di stringere relazioni commerciali e chiudere contratti”. (La differenza con i propositi delle altre fiere non appare così evidente, ma tant’è). Comunque ridurre lo spazio dell’esposizione – e i costi – presentando stand di misura minima sembra una scelta vantaggiosa per i partecipanti come per i visitatori: i prodotti esposti sono necessariamente quelli più rappresentativi, ci si identifica con facilità, la lettura è rapida.
Invece la fisionomia della fiera non appare ancora definita; il numero relativamente limitato degli espositori rispetto all’eterogeneità dei settori fa sì che alcuni di questi siano rappresentati da una-due ditte soltanto, tanto da sembrare estranei alla fiera stessa e con scarsa o nessuna possibilità di confronto. Invero si tratta solo della prima edizione del Florshow e anche simili eventi devono dimostrare la propria efficienza prima di trovare un assetto equilibrato con l’arrivo di un numero di espositori adeguato per ogni settore. I vivaisti e i rivenditori sono in maggioranza, ma ancora si incontrano ditte molto specializzate: in trasporti dedicati, in programmazione di software rivolti alla gestione dei vivai, in meccanizzazione dei trapianti, in impianti d’irrigazione…
La fiera è riservata agli operatori del settore, espressione che in questo caso si riferisce a chi coltiva e commercia piante a un livello industriale più che artigianale. Non espongono qui i vivaisti che invece frequentano le varie mostre mercato per appassionati che, scaldandosi l’aria, divengono sempre più fitte sul calendario. Quelli del Florshow non sono prodotti da bottega, dal-produttore-al-consumatore, ma da supermercato, il Garden Center.
Le piante che qui si espongono devono rispettare le regole della grande distribuzione; ogni pianale se non ogni carrello, che è l’unità di vendita, deve contenere esemplari tutti della medesima altezza, della medesima larghezza, del medesimo grado di fioritura. L’uniformità è indispensabile per la comparazione dei prezzi, all’ingrosso quanto al dettaglio. Inoltre l’aspetto della pianta al momento della vendita è decisivo per il successo della medesima: il packaging cura la confezione, la trasportabilità, le proporzioni tra pianta e vaso… L’acquirente non sceglierà quella pianta perché ne è innamorato, perché la sta cercando da anni su tutti i cataloghi, perché è l’unica che gli manca e la comprerebbe anche fosse di quattro sole foglie e con una promessa di fioritura lontana un paio d’anni. La sceglierà solo se è impeccabile e pronta da consumare (quanto può essere difficile nei Garden Center vendere bulbi che fioriranno dopo una stagione!).
Piante-oggetto – non piante-essere-vivente, piante-rarità, piante-frammento-di-storia. Tuttavia il loro acquisto segnala bisogni che credo siano in sostanza molto simili a quelli che muovono gli appassionati più esperti; ciò che cambia è il modo in cui questi bisogni sono espressi e vissuti. L’Ambrogio del Garden Center risponde non tanto alla “voglia di qualcosa di buono” quanto invece a un desiderio più viscerale. Anche se la pianta-snack non saprà soddisfarlo pienamente, possiede tuttavia le qualità di un prodotto accessibile: si trova facilmente, non richiede cure specifiche, se muore può essere sostituita con un’altra identica; non richiede studio o ricerca, mentre è in grado di rendere più accettabile, più familiare o meno ostile il luogo in cui si vive o lavora – non quello dei giorni festivi: l’altro.
“Un chirurgo seppellisce i propri errori; un architetto ci pianta qualche albero davanti”. Siccome di solito manca pure lo spazio per gli alberi, gli abitanti degli errori si arrangiano come possono affidandosi alle “piante da interno” – resistenti, coloratissime, mai profumate (il profumo si espande oltre il confine della scrivania e potrebbe turbare nasi altrui) – sono come le cartoline da luoghi lontani, i salvaschermo con spiagge e palme. E un poco anche marcatori di territorio.
(Precisazione – doverosa se non voglio rischiare di perdere clienti: non credo che gli architetti siano la causa di un malessere curato sintomaticamente dalla pianta-pasticca; piuttosto anch’essi sono presi, con il vivaista, il progettista di giardini e molti altri, nella rete viziosa della mala gestione del paesaggio).
Gli stand mostravano poche novità riguardo alle “piante per ogni occasione”, quelle che si acquistano per gli allestimenti, i matrimoni, le visite, le feste di vario genere (mamma, innamorati, fine d’anno…), mentre, se consideriamo l’insieme degli espositori come rappresentativo del mercato florovivaistico italiano, sono da registrare incrementi di qualità e varietà tra le piante da frutto – dalle fragole ai ribes agli alberi medi e grandi – e tra le piante tappezzanti, sia per sottobosco sia per giardini pensili. Credo siano indicativi di tendenze omologhe alla “riappropriazione di spazi vitali”, in parte fortificate dalle mode giardinistico-paesaggistiche (sì, ci sono pure queste) d’oggi, ma che varrà la pena approfondire presto.
Domanda: vivaista e acquirente, chi si adegua a chi? O entrambi sono sudditi di misteriose “regole di mercato”? Tra chi produce per la grande distribuzione è facile riscontrare una forte refrattarietà per i nomi delle piante: genere, specie, varietà sono mal scritti, storpiati, abbreviati, dimenticati… Un produttore mi racconta che in vivaio coltiva numerose varietà di mirtillo, ma che per la vendita si limita a distinguere tra precoce, medio e tardivo – tanto al cliente il nome esatto non interessa, solo quanti frutti potrà mangiare e quando… Forse non spetta ai vivaisti educare i propri clienti, tuttavia un po’ di attenzione in più credo gioverebbe a tutti. Quel che spiace è il continuo adeguamento verso il basso.
Un’ultima nota su tutto: la qualità è sempre molto alta, si tratti di coltivare Spathiphyllum come Cheiridopsis namaquensis. Il che ci dà consolazione e qualche speranza.
Nessun commento:
Posta un commento